Undici giorni dopo la partenza dal monte Horeb gli ebrei giunsero a Kadesh, nel deserto di Paran, e vi si accamparono. Avevano raggiunto i confini della terra promessa. Il popolo propose di perlustrare la regione. Mosè riferì a Dio questa idea, ed egli ordinò che si scegliessero dodici rappresentanti, tra i responsabili di ogni tribù, per costituire il corpo della spedizione. Mosè incaricò questi uomini di rilevare la situazione e le risorse naturali del paese. Dovevano informarsi sul numero degli abitanti, sul potenziale difensivo delle popolazioni cananee ed esaminare la produttività del terreno, portando con sé qualche frutto dell’agricoltura del luogo. Le dodici spie partirono e attraversarono l’intero territorio, dal confine meridionale a quello settentrionale. L’impresa richiese quaranta giorni: nel frattempo, fra gli israeliti crescevano l’ansia e le aspettative. PP 324.1
La notizia del ritorno della spedizione si diffuse nell’accampamento con grande rapidità e fu accolta con entusiasmo. La gente si precipitò incontro ai dodici uomini, scampati a quella missione pericolosa. I frutti che avevano portato con sé erano la dimostrazione più evidente della prosperità della regione. Era autunno, ed essi avevano raccolto un grappolo d’uva così grosso che erano necessarie due persone, per trasportarlo; inoltre avevano trovato fichi e melograni, che crescevano in abbondanza. PP 324.2
Il popolo esultava: quel paese meraviglioso sarebbe appartenuto a Israele. Tutti ascoltarono con estrema attenzione il rapporto che gli esploratori esposero a Mosè. “...Noi arrivammo nel paese dove tu ci mandasti” esordirono i dodici “ed è davvero un paese dove scorre il latte e il miele, ed ecco de’ suoi frutti”. Numeri 13:27. A queste parole, la folla fu presa da un grande entusiasmo: tutti erano pronti a eseguire gli ordini di Dio, per prendere subito possesso di quella terra. Ma dopo la descrizione delle meravigliose ricchezze di Canaan, dieci dei dodici partecipanti alla spedizione parlarono a lungo delle difficoltà e dei rischi a cui gli israeliti si sarebbero esposti nell’intraprendere la conquista. La regione, infatti, era occupata da popoli numerosi e forti. Le città, grandi e fortificate, erano abitate da gente pronta a combattere: era impossibile conquistarle. Le spie aggiunsero di avere visto i giganti, discendenti di Anak: dunque, era inutile sperare di occupare Canaan. PP 324.3
I sentimenti degli ebrei mutarono completamente. Il coraggio e la fiducia erano scomparsi, sostituiti dal più vile sconforto non appena quei dieci membri del gruppo avevano manifestato il loro pessimismo: un atteggiamento suggerito da Satana motivato dallo scetticismo e dalla mancanza di fede. Alla fine di questo discorso, l’intera comunità cadde in una cupa disperazione: tutti sembravano avere dimenticato le grandi manifestazioni di potenza con cui in passato il Signore aveva sostenuto il suo popolo. Nessuno pensò che lo stesso Dio che li aveva condotti così lontani dall’Egitto avrebbe potuto assicurare loro il possesso di quella terra. Nessuno ricordò l’intervento straordinario con cui erano stati liberati dalla schiavitù: eppure, il Signore aveva tracciato per loro un sentiero asciutto nel mar Rosso e aveva distrutto l’esercito del faraone, lanciato all’inseguimento dei fuggiaschi. Tutta l’impresa della conquista di Canaan ora sembrava dipendere soltanto dalla forza delle armi. PP 325.1
Gli israeliti non credevano in Dio e quindi sottovalutavano il suo potere: non avevano più fiducia in colui che li aveva guidati fino a quel momento. Ancora una volta, ricaddero nel loro vecchio errore: protestarono contro Mosè e Aronne. “...Fossimo pur morti nel paese d’Egitto!” dissero “...O fossimo pur morti in questo deserto!” Numeri 14:2. Accusavano i loro capi di averli ingannati, portandoli alla rovina. PP 325.2
La delusione e la disperazione ebbero il sopravvento. Un gemito di angoscia si unì alle confuse voci di protesta. Caleb — una delle due spie che non aveva ancora preso la parola — comprese la gravità della situazione. Con grande coraggio, difese l’operato di Dio e fece tutto ciò che era in suo potere per neutralizzare l’influsso negativo dei suoi compagni. Per un attimo, la folla tacque e ascoltò le sue parole. Caleb incoraggiò gli israeliti a non perdere le speranze: era ancora possibile conquistare Canaan. Nel suo discorso, egli non smentì il rapporto che già era stato fatto: certo, le mura delle città erano alte e i Cananei erano forti, ma Dio aveva promesso quella terra meravigliosa a Israele. “Saliamo pure e conquistiamo il paese” insistette Caleb, “poiché possiamo benissimo soggiogarlo”. Numeri 13:30. PP 325.3
Le dieci spie che avevano parlato per prime lo interruppero, e descrissero gli ostacoli dell’impresa usando toni ancora più cupi di prima. “...Noi non siamo capaci di salire contro questo popolo” dichiararono, “perché è più forte di noi... Tutta la gente che vi abbiamo veduta, è gente d’alta statura; e v’abbiamo visto i giganti, figliuoli di Anak, della razza de’ giganti, rispetto ai quali ci pareva d’esser locuste; e tali parevamo a loro”. Numeri 13:32, 33. PP 325.4
Una volta adottato un atteggiamento negativo, i dieci uomini continuarono a opporsi ostinatamente a Mosè, ad Aronne e, in ultima analisi, a Dio stesso. Ogni minimo accenno positivo li rendeva ancora più determinati. Ormai erano decisi a scoraggiare ogni tentativo di intraprendere la conquista di Canaan, e deformarono il resoconto della situazione perché avesse un peso decisivo nell’influenzare il popolo. “È un paese che divora i suoi abitanti” dissero. Con l’aggiunta di questa affermazione il loro rapporto, che fino a quel momento si era limitato a esprimere un parere negativo, diventava addirittura falso e contraddittorio. Le dieci spie infatti avevano dichiarato che il paese era ricco e prospero, popolato da uomini di statura gigantesca: ciò diventava impossibile da sostenere, se a causa del suo clima insalubre si poteva dire che esso “divorava i suoi abitanti”. PP 326.1
La scelta di non credere nell’intervento di Dio espone l’uomo all’influsso di Satana: è impossibile stabilire fino a che punto si possa esserne condizionati. PP 326.2
“Allora tutta la raunanza alzò la voce e diede in alte grida; e il popolo pianse tutta quella notte”. Numeri 14:1. All’improvviso, la protesta si trasformò in aperta rivolta. Satana aveva ormai pieno controllo sugli israeliti, ed essi sembravano impazziti. Maledirono Mosè e Aronne, dimenticando che Dio poteva sentire le loro accuse ingiuste, e che l’Angelo dell’Eterno assisteva a quella terribile esplosione d’ira. Pieni di amarezza, gridarono: “...Fossimo pur morti nel paese d’Egitto! O fossimo pur morti in questo deserto!” Quindi accusarono Dio, con queste parole: “Perché ci mena l’Eterno in quel paese ove cadremo per la spada? Le nostre mogli e i nostri piccini vi saranno preda del nemico. Non sarebb’Egli meglio per noi di tornare in Egitto? E si dissero l’uno all’altro: Nominiamoci un capo e torniamo in Egitto”. Numeri 14:2-4. Accusavano Mosè e Dio stesso di averli ingannati con la promessa di una terra che non avrebbero mai potuto ottenere. PP 326.3
I rivoltosi arrivarono al punto di nominare un nuovo comandante, che avrebbe dovuto ricondurli nel luogo in cui avevano sopportato schiavitù e sofferenza: l’Egitto, la prigione da cui il Signore li aveva liberati con il suo straordinario intervento. PP 326.4
Avviliti e scoraggiati, “Mosè e Aronne si prostrarono a terra dinanzi a tutta l’assemblea riunita de’ figliuoli d’Israele” (Numeri 14:5): non sapevano più che cosa fare, per distogliere gli israeliti dal loro irragionevole proposito. Caleb e Giosuè fecero un altro tentativo per sedare il tumulto. Con gli abiti strappati, in segno di grande sofferenza e indignazione, attraversarono rapidamente la folla e si fermarono al centro del gruppo: la loro voce era così forte che riuscì a emergere al di sopra dei pianti della gente e delle grida dei ribelli. “...Il paese che abbiamo attraversato per esplorarlo, è un paese buono, buonissimo. Se l’Eterno ci è favorevole, c’introdurrà in quel paese, e ce lo darà: è un paese dove scorre il latte e il miele. Soltanto, non vi ribellate all’Eterno, e non abbiate paura del popolo di quel paese; poiché ne faremo nostro pascolo; l’ombra che li copriva s’è ritirata, e l’Eterno è con noi, non ne abbiate paura”. Numeri 14:7-9. I cananei erano ormai così corrotti che il Signore aveva deciso di non tollerare ulteriormente la loro condotta. Privi della protezione divina, essi sarebbero stati una facile preda. Con il patto del Sinai, Dio aveva promesso la loro terra a Israele. Purtroppo, gli ebrei credettero al falso resoconto delle dieci spie: i traditori riuscirono nel loro intento. Tuttavia se anche soltanto due dei membri della spedizione avessero riferito un rapporto negativo, e gli altri dieci avessero incoraggiato il popolo a conquistare Canaan, affidando alla potenza del Signore, il risultato sarebbe stato lo stesso. Gli israeliti erano colpevoli perché non credevano in Dio: questo era il reale motivo della rivolta. Solo due spie avevano tentato di difendere la verità: le altre dieci avevano deciso di ribellarsi. PP 326.5
Le spie bugiarde, di fronte al tentativo di Caleb e Giosuè, li accusarono pubblicamente: allora la folla gridò che fossero lapidati. La plebaglia impazzita si accalcò intorno a quei due uomini sinceri e fedeli; alcuni raccolsero delle pietre per ucciderli e si gettarono su di loro, gridando in modo orribile. All’improvviso, le pietre caddero dalle mani degli aggressori: un pesante silenzio li opprimeva e iniziarono a tremare. Dio faceva da scudo a Caleb e Giosuè, per impedire il loro assassinio. Lo splendore della sua presenza, simile al bagliore di una fiamma, illuminò il santuario. Tutti riconobbero quel segno: era la manifestazione di un Essere più potente di qualsiasi uomo. Nessuno osò opporre resistenza. Le dieci spie riuscivano a respirare a stento: schiacciate dal terrore, si precipitarono nelle loro tende. PP 327.1
Mosè si alzò ed entrò nel santuario. Il Signore dichiarò: “Io lo colpirò con la peste, e lo distruggerò, ma farò di te una nazione più grande e più potente”. Numeri 14:12. Ma ancora una volta Mosè decise di intercedere per Israele: non poteva permettere la distruzione del suo popolo anche se sarebbe potuto diventare il capostipite di una nazione più potente. Appellandosi alla bontà del suo Creatore, disse: “...Si mostri, ti prego, la potenza del Signore nella sua grandezza, come tu hai promesso dicendo: L’Eterno è lento all’ira e grande in benignità... Deh, perdona l’iniquità di questo popolo, secondo la grandezza della tua benignità, nel modo che hai perdonato a questo popolo dall’Egitto fin qui”. Numeri 14:17-19. Dio promise di non distruggere immediatamente gli israeliti: tuttavia, a causa della loro viltà e del loro ostinato scetticismo di fronte agli interventi divini, non li avrebbe più aiutati a sconfiggere i nemici. Nonostante tutto questo, il Signore dimostrò ancora una volta la sua generosità ordinando che Israele tornasse indietro, verso il mar Rosso: questo era l’unico percorso ancora sicuro. PP 327.2
Durante la rivolta, la folla aveva gridato: “Fossimo pur morti in questo deserto!” Quella preghiera sarebbe stata esaudita. L’Eterno dichiarò: “...Io vi farò quello che ho sentito dire da voi. I vostri cadaveri cadranno in questo deserto; e voi tutti, quanti siete, di cui s’è fatto il censimento, dall’età di venti anni in sù... I vostri piccini, che avete detto sarebbero preda dei nemici, quelli vi farò entrare; ed essi conosceranno il paese che voi avete disdegnato”. Numeri 14:28, 29, 31. Ma di Caleb disse: “Ma il mio servo Caleb, siccome è stato animato da un altro spirito e mi ha seguito appieno, io lo introdurrò nel paese nel quale è andato; e la sua progenie lo possederà”. Numeri 14:24. Le dodici spie avevano impiegato quaranta giorni, per esplorare Canaan: gli ebrei avrebbero vagato per quarant’anni nel deserto. PP 328.1
Quando Mosè comunicò al popolo la decisione di Dio, l’ira si trasformò in pianto. Tutti sapevano che quella punizione era giusta. Le dieci spie bugiarde, colpite dalla condanna divina, morirono sotto gli sguardi di tutti. Nel loro destino, ogni israelita poteva leggere un giudizio su se stesso. PP 328.2
Gli ebrei sembravano sinceramente pentiti: in realtà, ciò che li addolorava era il risultato della loro condotta colpevole e non la consapevolezza della propria ingratitudine e disubbidienza. Quando capirono che Dio non sarebbe ritornato sulla sua decisione, la loro abituale caparbietà emerse ancora una volta. Il popolo dichiarò che non avrebbe più seguito Mosè nel deserto. Nell’ordinare il ritorno nel deserto, e l’abbandono di quella terra nemica, Dio voleva assicurarsi che gli israeliti avessero imparato a ubbidire: la reazione dimostrò che la loro sottomissione era solo apparente. Essi sapevano di essere colpevoli: si erano lasciati trasportare dalla collera e avevano tentato di uccidere le spie che li invitavano a ubbidire a Dio. Tuttavia, ciò che ora li terrorizzava era la scoperta di avere commesso un errore terribile, che avrebbe avuto conseguenze disastrose. Non erano affatto cambiati: alla prossima occasione, sarebbe stato sufficiente un pretesto per innescare un’altra rivolta. Infatti accadde proprio così non appena Mosè, come portavoce di Dio, ordinò loro di ritornare nel deserto. PP 328.3
Per Mosè, Aronne, Caleb e Giosuè la decisione con cui il Signore vietava per quarant’anni a Israele l’ingresso nella terra promessa, rappresentò un’amara delusione, ma essi l’accettarono senza protestare. Al contrario, quanti si erano lamentati del trattamento che Dio aveva loro riservato, dichiarando di voler ritornare in Egitto, piansero e protestarono per aver perduto dei benefici che fino a quel momento avevano disprezzato. In precedenza le loro lamentele erano state ingiustificate: ora avevano un valido motivo per piangere. Se gli ebrei avessero provato dolore per la loro colpa, quando era risultata evidente, quella sentenza non sarebbe mai stata pronunciata. Invece, essi rifiutarono la condanna del loro comportamento: il dolore che dimostravano non derivava dal pentimento e non poteva spingere Dio a revocare la punizione. PP 328.4
Il popolo pianse per tutta la notte; il mattino dopo in molti si fece strada una speranza. Essi pensavano di poter rimediare alla viltà dimostrata. Quando l’Eterno aveva ordinato di passare il confine della terra promessa e conquistarla, tutti avevano rifiutato. Ora Egli aveva proibito di entrarvi e gli ebrei, ancora una volta, scelsero di ribellarsi ai suoi ordini. Decisero di invadere e occupare Canaan: forse il Signore avrebbe accettato la loro iniziativa, abbandonando l’intenzione di punirli. PP 329.1
Per il Signore la conquista di quella terra doveva rappresentare un privilegio e un dovere per gli israeliti: a causa del loro ostinato rifiuto, essi persero questa opportunità. Satana era riuscito nel suo intento: prima impedendo agli ebrei di entrare nella terra promessa e poi spingendoli alla stessa impresa di fronte alla quale in precedenza si erano ribellati. Con questa nuova ribellione, l’inganno di Satana ebbe completo successo. PP 329.2
Al ritorno delle spie il popolo, convinto di non essere abbastanza forte per conquistare Canaan, non aveva avuto fiducia nel potere di Dio; ora, invece, tutti erano convinti di riuscire a impadronirsene senza l’aiuto di nessuno. “Abbiam peccato contro l’Eterno” gridarono “noi saliremo e combatteremo interamente come l’Eterno, l’Iddio nostro, ci ha ordinato...”. Deuteronomio 1:41. La disubbidienza li aveva resi completamente ciechi. Il Signore non aveva mai ordinato di “salire e combattere”: gli israeliti non avrebbero dovuto usare la violenza, per conquistare la terra promessa. Il loro unico compito consisteva nella fedeltà agli ordini divini. PP 329.3
Benché il pentimento degli ebrei fosse solo superficiale, essi avevano confessato la propria colpa, che consisteva nell’aver ascoltato il falso rapporto delle dieci spie. Ora comprendevano il valore dei benefici che con tanta leggerezza avevano respinto. Ammisero di essere responsabili dell’esclusione da Canaan, perché non avevano creduto in Dio. Dissero: “Abbiamo peccato”, riconoscendo di essere gli unici colpevoli e di aver agito ingiustamente nei confronti del Signore, accusandolo di non aver adempiuto alle sue promesse. Benché questa confessione non nascesse da un reale pentimento, essa ristabiliva la verità, riguardo al comportamento dell’Eterno nei confronti d’Israele. PP 329.4
Ancora oggi Dio agisce nello stesso modo, per portare gli uomini a riconoscere la sua giustizia. Talvolta, coloro che sostengono di amare il Signore si lamentano perché non comprendono il suo intervento: svuotano di significato le sue promesse e infine cedono al male, collaborando con gli agenti di Satana per ostacolare i propositi divini. Dio allora guida gli eventi in modo tale da indurre queste persone — al di là di un reale pentimento — a riconoscere la propria colpevolezza, e insieme la giustizia e la bontà che Egli ha dimostrato nei loro confronti. Così il Signore riesce a piegare le forze contrarie ai suoi intenti, affinché risulti evidente l’azione del male. Benché l’atteggiamento che ha prodotto l’errore non sia cambiato, se non superficialmente, questo tipo di confessioni ha la funzione di onorare Dio e giustificare le sue riprensioni, spesso fraintese o disprezzate. La stessa cosa avverrà quando la giusta collera di Dio porrà fine al mondo. Quando “il Signore [verrà] con le sue sante miriadi per far giudicio contro tutti... per convincere tutti gli empi di tutte le opere di empietà che hanno empiamente commesse...” (Giuda 1:14, 15), ogni colpevole dovrà riconoscere che la propria condanna è giusta. PP 330.1
Incuranti della sentenza che Dio aveva pronunciato su di loro, gli israeliti si prepararono a intraprendere la conquista di Canaan. Rivestiti delle loro armature, equipaggiati per la guerra, si sentivano pronti a combattere. Il Signore e gli uomini che gli erano rimasti fedeli, erano consapevoli della debolezza di quell’esercito. Quando, quasi quarant’anni dopo, l’Eterno diresse Israele nella conquista di Gerico, promise di lottare con la sua gente. L’arca che racchiudeva le tavole della legge precedeva le schiere degli ebrei. I loro movimenti erano diretti da comandanti scelti da Dio, che ubbidivano ai suoi ordini. Nessun pericolo avrebbe potuto minacciare il popolo che seguiva una simile guida. Ora, invece, gli israeliti cercavano lo scontro con il nemico, pur sapendo di trasgredire un ordine divino e un esplicito divieto dei loro capi. Essi partirono senza l’arca e senza Mosè, per raggiungere l’esercito cananeo. PP 330.2
La tromba suonò e Mosè si affrettò a rivolgere loro questo avvertimento: “Perché trasgredite l’ordine dell’Eterno? La cosa non v’andrà bene. Non salite perché l’Eterno non è in mezzo a voi; che non abbiate ad essere sconfitti dai vostri nemici! Poiché là, di fronte a voi, stanno gli Amalechiti e i Cananei, e voi cadrete per la spada...”. Numeri 14:41-43. I cananei avevano sentito parlare della misteriosa potenza che sembrava proteggere quel popolo e dei prodigi che avevano accompagnato il suo viaggio. Per questo motivo, avevano radunato grandi forze per respingere gli invasori. Ma l’esercito che stava per attaccare Canaan non aveva un comandante. Nessuno, tra gli israeliti, pregò Dio di concedere loro la vittoria. Essi avevano preso una decisione disperata: avrebbero capovolto il loro destino oppure sarebbero morti in battaglia. Sapevano di non essere addestrati alla guerra, ma contavano sul numero dei soldati e sull’efficacia delle armi; inoltre, speravano di travolgere la resistenza del nemico con un attacco improvviso. Con questo piano essi sfidarono imprudentemente il loro avversario, che non aveva ancora osato attaccarli. PP 330.3
I cananei si erano appostati su un altopiano roccioso, difficilmente accessibile. Gli israeliti erano numerosi ma questo avrebbe reso ancora più terribile la disfatta. PP 331.1
Gli ebrei si arrampicarono lentamente per i sentieri scoscesi dell’altopiano, esponendosi al tiro dei proiettili nemici. I cananei, situati più in alto dei loro avversari, lanciarono su di loro dei grossi macigni che rotolarono con un rombo sordo, creando una scia di sangue. Alcuni israeliti, ormai esausti, riuscirono a raggiungere la cima, ma furono respinti e precipitarono a valle, dove trovarono la morte. Il luogo della strage era completamente disseminato di cadaveri. Israele era stato sconfitto. La ribellione a Dio aveva portato soltanto morte e distruzione. PP 331.2
Costretti a sottomettersi alla punizione divina, i sopravvissuti piansero “davanti all’Eterno”, “ma l’Eterno non dette ascolto” ai loro lamenti. Deuteronomio 1:45. Prima di quella terribile sconfitta, i cananei avevano atteso con terrore l’avvicinarsi del potente esercito israelita: ora erano sicuri di respingere l’attacco. Tutti i racconti degli straordinari prodigi che il Dio d’Israele aveva compiuto per il suo popolo, sembravano del tutto privi di fondamento; non c’erano più motivi per temere. Questa prima disfatta degli ebrei avrebbe restituito alle popolazioni cananee tutto il loro coraggio e la loro determinazione. L’impresa della conquista di Canaan sarebbe stata in futuro ancora più difficile. Agli israeliti non rimaneva che fuggire davanti al nemico, per rifugiarsi nel deserto. Ognuno di loro sapeva che quel luogo sarebbe stato la tomba di un’intera generazione. PP 331.3